Eric Wood – Illustrated Night – Appaloosa /IRD
DiscografiA
Letters From The Earth
(Tangible Music /Intersound, 1997)****
Illustrated Night
(Appaloosa /IRD, 1999)****
…from Late For The Sky Profile 1999
Eric Wood.
Greenwich Village. Una precoce primavera, inaspettatamente calda, ha
scaraventato tutti i tavolini dei piccoli ristoranti e dei caffè dai
nomi e dai colori esotici, sul selciato dei marciapiedi. Un uomo cammina
avanti a me, quasi correndo, alzandosi sulle punte di scarpe grosse da
montagna, la camicia a scacchi svolazzante, un berretto di foggia
francese a fargli coraggio. Una vetrina mi attira. Non ci sono tavolini
fuori, la sala, intravista dal vetro sulla strada, è calda e quieta. Un
piccolo foglio appiccicato alla porta snocciola, con discrezione tale da
scoraggiare i miopi, una piccola lista di nomi e date. Mi fermo, leggo e
mi volgo alla figura saltellante che mi precede, ora di parecchi metri.
Il primo di quei nomi è proprio il suo, e la data al suo fianco di soli
pochi giorni prima. "Ehy amico, che succede? Hai suonato qui e nemmeno
me lo dici?". Eric Wood, sorpreso di questa mia curiosità, con
riluttanza torna sui suoi passi, e con timidezza mi apre la porta. "Non
so se c'è ancora quella ragazza, quella che c'era quando ho suonato
anch'io……non vorrei disturbare, sai questo è un posto molto quieto….la
gente vuol stare tranquilla…..se vuoi bere qualcosa meglio andare
altrove….." e intanto apre la porta e, strizzando gli occhi, cerca
quella ragazza, la barista o la proprietaria, chissà. Inevitabilmente è
un abbraccio che lo accoglie, e si estende anche a me, straniero stupito
ed impacciato. La gente ai tavoli lo riconosce, gli sorride, lo chiama,
solo per salutarlo. Siamo rimasti là dentro, dentro al The Living Room,
appena pochi minuti. No la popolarità non si addice proprio a Eric Wood.
Così come non gli si addicono gli spazi chiusi, o la modernità nella
accezione di New York, ove è antico tutto ciò che ha dieci anni. Eric
viene dal grande nulla dell'Ohio, appartiene a New York, ma come può
appartenere una vecchia sentinella ad un forte ormai abbandonato e
fugge sulle montagne appena può, lavorando il legno e costruendo, da
anni ormai, una "selvaggia" abitazione in tronchi, sepolta nel bosco e
nella neve. A New York vive e lavora, proprio di fronte al grande condo
ove dimora, quando a Manhattan, la divina Madonna. L'appartamento di
Eric sta però in uno dei più antichi palazzi ancora in piedi su quella
folle isola di cemento, un tre piani degli anni '20, testardamente
abbarbicato alle proprie fondamenta, pur se minacciato, di fronte,
dietro ed ai fianchi, da minacciosi e tetri grattacieli. Dove se no? Tre
ripide scale, no lift, che Eric percorre a rotta di collo, pur se
gravato del peso della mia valigia, pesante come una condanna
all'ergastolo. Ora capisco quanto mi disse tempo addietro :
"…l'ispirazione per una canzone? Può arrivare da ogni parte, una
melodia, più spesso un ritmo. Sono affascinato dai ritmi, dai tempi.
Quando cammino ad esempio, può capitare che siano i miei piedi a
suggerirmi un'idea ritmica, allora provo a seguirli, ad
ascoltarli…succede, non so dirti perché…". Le povere tecniche
investigative di un piccolo cronista, condannato alla banalizzazione nel
linguaggio scritto del non raccontabile, prova fissare esili evidenze: "
…a casa mia si ascoltava tanta musica, mia madre in particolare amava
Belafonte, la musica brasiliana…sono cresciuto ascoltando questi ritmi
caraibici e latini, credo che abbiano avuto molta parte nell'orientare
la mia sensibilità artistica..", ma al di là della mera cronaca, poco
davvero sanno dire dell'universo poetico e musicale di un autore
spiazzante per profondità di sguardo e ammaliante per indicibile
bellezza espressiva. Una adolescenza difficile, precocemente accelerata
sulla strada, condivisa con una chitarra (ma solo per poco perché troppo
pesante e riconoscibile dagli uomini in divisa che, sino alla maggiore
età, hanno incessantemente provato di ricondurlo a casa) e più spesso
con non altrettanto sinceri compagni di viaggio; esperienze musicali
dapprima in Ohio, all'epoca ambiente ribollente ed inquieto (Joe Walsh
ricorre spesso nel raccontare rapito di Eric), quindi nel circuito
universitario e dei college, e ancora, complice un viaggio scommessa,
l'approdo a Nashville, alla corte di Kristofferson. Occorre raccontare
di come andò? Ci provò, il ventenne Eric, a scrivere qualcosa che
suonasse country, o meglio, quel country che i signori di Music City
solo intendono. Ma la scrittura di Eric, così personale e visionaria,
risultava tanto incomprensibile a tutti quegli scribacchini di hits,
così lindi nel completo aziendale, quanto un canto omerico. In and out,
un passo nella musica, due passi indietro. Un contratto con una major,
piovuto chissà da dove, alcuni nastri, ancora di quelli grandi come
pizze, oggi totalmente smagnetizzati ed inutilizzabili (li ho visti, e
ho avuto la tentazione, poi repressa, di rubarli) un pugno di speranze
fatte a canzone, rimaste incompiute, costrette al silenzio dalle
imprescrutabili lungimiranze dei padroni della musica ed in mezzo, fra
l'in e l'out, una vita davvero avventurosa, tante diverse esperienze
come band leader, tante, tantissime canzoni (queste sì le ho sentite e
portate con me, dono prezioso dell'autore) fra le quali si scoprono,
nascoste in un accenno di chitarra, o nel solo fischiare di Eric, gli
scheletri di alcune fra le pagine dell'unico vero album a tutt'oggi mai
realizzato, quel Letters from The Earth che, solo due anni fa (e
scriverlo mi sorprende, tanto lunghi possono sembrare, quanto
insufficienti a svelare la complessità e la ricchezza di quell'album,
ancor oggi, nuovo, nuovissimo), ci fece innamorare al primo ascolto.
Dovere di cronista riportare, seppure sommariamente e superficialmente,
alcuni tra i momenti del divenire umano ed artistico di Eric Wood, che
poco però sanno raccontare, e non potrebbe essere altrimenti, di colui
che questi momenti ha vissuto. "Non è mai stato facile per me. Quando
andai sulla strada, fuggendo da casa, lasciavo una casa che non amavo,
genitori che non avrei rimpianto, ma affrontavo un mondo che non
conoscevo. Ho dovuto rinunciare alla musica per un po', non potevo
girare con la chitarra. Ero giovane, molto giovane, minorenne e la
polizia mi cercava….cercava un ragazzino con una chitarra….così l'ho
lasciata da qualche parte, e solo saltuariamente, quando ne trovavo una,
suonavo un po'…Il mio primo strumento, avevo sette anni, fu la
fisarmonica. Forse in Italia è abbastanza comune, è il paese delle
fisarmoniche no?…ma non lo è certo negli States, e non per un bambino di
sette anni. La fisarmonica era grandissima per me, ero piccolo e quella
pesava quasi più di me. Ho resistito alla fatica per quattro anni, poi
sono passato alla chitarra. Il canto invece è nato con me. Ch'io
ricordi, ho sempre cantato. Sino ai sedici anni, comunque, dovendo
nascondermi alla polizia, non ho suonato regolarmente. Poi, da solo o
con qualche band, ho cominciato a girare prevalentemente il Mid West,
colleges e coffe houses. Non ho più smesso, da allora, di suonare. Sono
sempre stato curioso, la musica mi ha sempre attratto. Tutta la musica.
Mia madre mi ha allevato con le canzoni di Belafonte, e quei ritmi
caraibici, tutto il linguaggio musicale del sud America, mi hanno da
subito affascinato, e tutt'ora mi affascinano. Il jazz poi è un altro
dei miei grandi amori. La prima volta che ascoltai Dave Brubeck, ero
giovanissimo, fui fulminato. Ho amato anche Nina Simone, Tay Mahal,
tutti quegli artisti che sapevano andare al di là dei generi, che
mescolavano blues e jazz e ritmi latini. Oggi dicono ch'io sia un folk
singer. Non so che dire. Non ho mai pensato di esserlo, e nemmeno le
case discografiche lo pensano. D'altronde quelle non sanno cosa dire di
me. Troppo folk, se si tratta di label orientate sul jazz, troppo jazzy
se, al contrario, sono folk label. C'è da uscirne pazzi….Comunque è
vero, la folk music, soprattutto la scena del Greenwich Village degli
anni '60 è stata molto importante per me. Quando stavo nell'Ohio, mi
capitarono sotto mano i primi dischi di Dylan. Non sapevo chi diavolo
fosse, ma mi piaceva. Poi, di colpo, le radio cominciarono a trasmettere
canzoni come Blowin' in the Wind, e i giornali parlavano di lui. Così mi
incuriosii ancora di più, e cominciai a seguire anche quella scena
musicale. Ricordo Phil Ochs, Joan Baez, che piaceva anche a mia madre, e
Tim Buckley. Ma anche la scena acida di San Francisco e prima ancora le
canzoni dei Byrds e dei Beatles, facevano parte della mia collezione di
dischi. Facevano, purtroppo, perché, qualche anno fa i ladri mi hanno
completamente ripulito la casa, portando via tutti i miei vecchi
vinili." Due album, completamente registrati e pronti per esser gettati
al mondo, sono rimasti invece nei cassetti delle majors. " Ho
registrato, in passato, almeno in tre grosse sessions, due album che non
videro mai la luce. Ogni volta cambiavo direzione, se tu ascoltassi ora
quella musica credo che non mi ritroveresti per come mi conosci da
Letters from the Earth. E' un problema questo, non per me, ma per le
relazioni con il music business. Io non riesco a ripetermi. Non si
tratta di una presa di posizione, o di una ricerca forzata.
Semplicemente non sto mai fermo, seguo il mio naturale cambiamento.
Sono un tipo curioso, te l'ho già detto prima, e questo non va bene al
mercato discografico. Per loro tu dovresti fare sempre la stessa
canzone, non spostarti mai da ciò che loro ritengono sia il tuo
pubblico. Da un pittore sarebbero capaci di pretendere sempre e comunque
la stessa tela, in eterno. Ho impiegato trent'anni a trovare un
contratto ed avere un disco fuori. Non so nemmeno come sia riuscito a
fare Letters, in verità. In questo momento, negli States, la
competizione è durissima. New York è il posto più difficile per un
musicista. Tutti vogliono suonare qui, e per farlo accettano condizioni
assolutamente proibitive. Per chi, come me, vive e lavora a New York,
non è facile trovare serate, ed ancor meno un contratto. I format
radiofonici poi, influiscono pesantemente sulle scelte delle labels,
anche di quelle indipendenti, che devono comunque appoggiarsi alle radio
per riuscire a promuovere i propri dischi. Come dicevo prima, quando
questi signori si trovano tra le mani un disco di Eric Wood si chiedono
cosa diavolo io stia suonando, cosa diavolo io sia. Un songwriter?
Nooo..Un jazzista? Nemmeno…Un rocker? Per carità…E' davvero pazzesco…."
Non è davvero molto difficile intervistare Eric Wood, e lo dimostrano le
decine di pagine che la stampa, non solo italiana, gli ha dedicato in
questi ultimi venti e più mesi. La facilità, ed il candore, con cui
Eric si apre a chiunque gli si proponga, non è però l'esito di
narcisistico protagonismo, o di ineluttabile logorrea, caratteristiche
abbastanza ricorrenti in chi, di professione, ha scelto di comunicare
per canzoni. Tutt'altro. Eric, schivo ed insolitamente pudico, parla
lentamente, scegliendo le parole, chiudendo spesso gli occhi, colorando
con l'intonazione della voce, sembianti verbali spesso troppo angusti
per riuscire a restituire tutta l'immaginazione, il sogno, la magia, che
muovono e riempiono le sue canzoni. A volte quasi un canto, il magnetico
fluire dell'eloquio di Eric Wood, è strettamente connesso con quanto
racconta, ne è significante significato. Capita allora che una semplice
domanda sui contenuti di una canzone, si trasformi in una intervista a
sé stante, riguardante l'arte, la vita, lui, noi. "Endless Highway"
(traccia d'apertura dell'album di Eric, nda) " è una road song. Banale,
direi. Tutti hanno scritto almeno una canzone sulla strada. Bob Dylan,
Tim Buckley, Joni Mitchell, Miles Davis, Dave Brubeck…..e potrei
continuare per giorni. Questa canzone, intanto, è un piccolo tributo a
tutti quanti, prima di me, hanno cantato la strada. Ma è anche una
metafora, dai risvolti diversi. La strada, il movimento, sono in un
certo senso la musica. Il cambiamento, lo scorrere, il ritmo, sono tutti
elementi musicali e sono al tempo stesso elementi del viaggio. Sulla
strada hai tutte queste cose. La musica è il viaggio, ed anche la
caducità, il divenire continuo. Ed è senza fine, una autostrada senza
fine appunto (in inglese, endless highway, nda). Ma la metafora contiene
anche elementi personali. In ciò che scrivo, metto sempre qualcosa di
mio, inevitabilmente. Alcune canzoni sono dannatamente personali, come
Look At The Fool, altre meno, ma tutte nascono (o racchiudono) dalle mie
esperienze, dal mio sentire e sentirmi col mondo. Endless Highway
allora, è una traduzione del mio sentirmi in viaggio, fisicamente ed
idealmente. Sono stato tanto tempo sulla strada, ancor oggi lo faccio, e
sempre ciò che mi muoveva era la speranza/curiosità, di trovare qualcuno
presso cui stare, anche solo per una notte, qualcuno che fosse
disponibile e mi accogliesse, per cantare o anche solo per spendere la
notte. E'una ipotesi di solidarietà, un andare verso il mondo e verso la
gente. E non sempre accade. Non sempre qualcuno è disposto ad
accoglierti ed ascoltarti." Ma di Letters From the Earth, l'album che ha
segnato, ed in che modo, il debutto al mondo della competizione
discografica di Eric, abbiamo già parlato, e non solo dalle colonne di
Late for the Sky. Il seguito di quell'album si chiama Illustrated Night
e vedrà la luce fra pochi mesi, appena sfumata l'estate. Per ascoltarlo,
per farmelo ascoltare per la prima volta, Eric mi ha condotto laddove
l'album è stato pensato, palpitato, sognato, lassù in cima alle montagne
Catskills, due ore e qualcosa a nord ovest di Manhattan. E' questo il
luogo nel quale Eric, uomo dei monti, ha scelto di piantare le proprie,
profonde radici, costruendo, dalle fondamenta al tetto, una fantastica
casa di tronchi, così come i trapper facevano nei secoli passati. "Se
guardi bene, se osservi come si incrociano quei tronchi, lassù sul
soffitto, vedrai che questa casa è stata costruita unendo due differenti
tecniche, l'una nordeuropea, scandinava, l'altra tipicamente americana,
quella dei pioneri." In verità, dove si unissero o si sommassero le due
tecniche, proprio non saprei dire. Ciò che vidi, ciò che sentii con
forza da lasciar quasi sgomento, fu la profonda appartenenza di Eric
Wood a quei luoghi, solitari ma così vivi, pieni del canto degli
uccelli, dei rumori della notte, animati da centinaia di presenze,
animali e spirituali che potevo, quasi con certezza, avvertire nel
traboccante silenzio e nella febbrile eccitazione dello sguardo con cui
il mio ospite riempiva lo spazio attorno a sé. Illustrated Night, chè di
musica si suppone io vi racconti, è stato registrato nei pressi di
Ferrara, nell'estate dello scorso anno, in occasione del tour estivo che
Eric tenne nel nostro paese e vedrà la luce grazie alla italianissima
Appaloosa, ad ulteriore dimostrazione di un legame davvero speciale che
intercorre tra Wood ed il nostro piccolo paese. Ero presente alle
sessions ferraresi e da allora serbavo gelosamente una copia, monitor
mixes, di ciò che ne uscì. La sorpresa, però, è stata grandissima. Ciò
che a Ferrara pareva già perfetto, nell'incantevole equilibrio di ritmi
e poesia, riletto e risistemato in terra americana, rasenta quasi la
magia. "Vedi, io scrivo qui le mie canzoni, o la maggior parte di esse.
Vengo spesso quassù, talvolta anche da solo. Questa stanza, l'intera
casa, è una listening room naturale e gli spazi che circondano questa
casa sono i miei orizzonti." E mi vien da pensare allora a quanti hanno
associato la musica di Eric a New York, e glielo chiedo, quale sia mai
il punto di unione fra la metropoli e queste montagne abitate solo da
orsi e cervi. Ridendo, con gli occhi di un bimbo, Eric mi dice:" Sono
io. Il punto d'unione è qui dentro di me, ed anche intorno a tutto
questo. La mia storia di uomo dei boschi… il mio nome, Wood, non certo
scelto a caso…e New York, che ho scelto venticinque anni fa e che non
potrei mai lasciare…E' tutto qui, forse allora anche nelle mie canzoni.
Io ho sangue indiano nelle vene, sono un mezzosangue Cherokee. Vedi quel
disegno e quella cintura appese al muro? Sono antichi disegni indiani, o
meglio, una replica che io ho fatto tempo fa. Il legame con la terra,
con la foresta è per me vitale." La recensione del disco la troverete in
qualche altro numero di Late for the Sky, oggi, il mio oggi di estensore
di queste note, non possiedo ancora la versione definitiva di
Illustrated Night e ciò che manca al mio advance so che non è marginale.
Ciò che manca me lo descrive Eric stesso, attorno al fuoco di un grande
camino, alle spalle due piccoli diffusori che spargono tutt'attorno la
poesia sonora di questo nuovo album. "Ci saranno alcuni contributi
vocali, importanti, di Cristina Donà e ancora alcune parti di chitarra
elettrica….". Ed ancora, nel raccontare e raccontarsi, Eric Wood pare
cercare, prima ancora che imporre, oscure verità in chi lo ascolta,
piccole ed imperscrutabili sintonie emotive, una comunione che sappia
bucare le barriere dei tempi, dei luoghi, delle differenze linguistiche
e culturali. Lo stesso percorso che affida alle sue canzoni, più che mai
ritrose allo svelamento, banale, del linguaggio tecnico o
interpretativo. L'enigma poetico ed artistico di Eric Wood è l'enigma
dell'arte, incapace, per intrinseca verità e costituzione di svelarsi
per sé, ma così potente da svelare sé nell'altro e l'altro in sé, in
mille e ancora mille modi ed epifanie, diverse ma autentiche.
Mauro Eufrosini for Late for the Sky /Italy, 1999
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